11/06/18

ARISTOTELE


LA BIOGRAFIA

Aristotele nacque verso il 384 a.C., a Stagira, città della penisola calcidica, nella Grecia settentrionale (vicina alla Macedonia), figlio di Nicomaco, medico e amico personale del Re di Macedonia, e di Festide, proveniente dall'isola di Eubea.
Fu discepolo e collaboratore di Platone alla Accademia, dove rimase per circa vent'anni; vi insegnò tra l'altro retorica (in polemica con Isocrate) e dialettica; in tale periodo scrisse anche dei dialoghi, di cui ci restano solo pochi frammenti. Pur assimilando molte idee del maestro Platone (come quella della immortalità dell'anima e della assolutezza della verità) andò sviluppando un proprio pensiero originale e quando morì Platone abbandonò l'Accademia, dove era stato eletto scolarca Speusippo, le cui idee non collimavano con le sue.
Si dedicò dapprima a ricerche di biologia, componendo una monumentale Storia degli animali, in collaborazione con Teofrasto, nella cui città, Mitilene, soggiornò.
Fu poi chiamato ad essere precettore (dal 343 a.C.) del figlio del Re di Macedonia, Filippo, il futuro Alessandro Magno. Durante il periodo di massimo splendore del suo ex-discepolo Aristotele fu ad Atene, dove fondò una fiorente scuola, il Liceo.
Alla morte di Alessandro Magno, nel 323 a.C., in Atene si ebbero moti anti-macedoni che minacciarono la incolumità personale di Aristotele. Egli preferì allora lasciare la città per Eubea, presso la casa materna. Lì morì l'anno seguente.


IL SUO PENSIERO 

Per Aristotele esiste, come per il suo maestro Platone, un mondo intelligibile, spirituale e invisibile (i Motori immobili), ma è pienamente reale anche il mondo sensibile, questo mondo, che è fatto di sostanze materiali. Anzi in qualche modo è questo mondo sensibile ad essere principalmente oggetto di attenzione.
Se infatti per Platone centrale è l'idea, realtà perfetta e immutabile, per Aristotele centrale è la sostanza, che è anzitutto sostanza materiale, corporea.
Mentre Platone era quindi tutto proteso verso il mondo delle idee, che abbiamo già visto prima e vedremo dopo dell'unione al corpo della nostra anima, per Aristotele questa, presente, è la vera vita. Prova ne sia il fatto che niente egli ci dice di una vita ultraterrena (che però nemmeno esclude).



LA SUDDIVISIONE DEL SAPERE

Tutto il sapere si suddivide ordinatamente in scienze teoretiche, pratiche e poietiche. Le prime sono volte al "sapere per il sapere" (theorein, vedere, contemplare), le seconde all'agire (prassein), le terze al "fare" (poiein).
L'ambito più importante del sapere sono le scienze teoretiche: sono loro che hanno il compito di dirci che cosa esiste.
Poi vengono le scienze pratiche (etica, per l'agire del singolo, e politica, per l'agire della collettività), che hanno il compito di delineare il retto comportamento dell'uomo.
Ma l'uomo non ha solo la possibilità di agire, può anche fare, cioè modificare il mondo materiale in cui si trova immerso: è il campo dell'arte (techne), in senso lato. I filosofi scolastici, nel Medioevo, sistematizzeranno la ulteriore distinzione tra arti belle e arti utili.




LA METAFISICA

Il suo fine è la contemplazione, cioè la conoscenza (disinteressata) della verità. Infatti, secondo Aristotele "tutti egli uomini, per natura, tendono al conoscere" . Il che significa che c'è nell'uomo il desiderio di conoscere la verità, e questo desiderio è più forte di qualsiasi interesse pratico. L'uomo desidera sapere il senso della sua esistenza, come è davvero, non piegandone la ricerca a un progetto predeterminato.


La metafisica ha quattro significati fondamentali:


Aitiologia


In quanto tale, la metafisica è scienza delle cause prime, ossia dei supremi perché. Si possono in effetti conoscere dei perché prossimi, che si costituiscono in realtà come dei "come" in rapporto ai perché supremi, alle cause prime, che la metafisica considera.
Tali cause prime sono quattro: materiale, formale, efficiente (o agente) e finale.

1.La causa materiale o materia è il sostrato indeterminato, privo quindi di caratteri specifici. Di questa causa si sono occupati essenzialmente i primi filosofi (dalla scuola ionica a Eraclito).

2.La causa formale o forma è il fattore determinante, ciò che fa sì che la materia indeterminata assuma certi caratteri distintivi. Di questa causa si è occupato in particolare Platone, con la sua teoria delle idee.

3.La causa efficiente (o efficace, o agente) è ciò da cui è prodotto l'effetto: è la causa nel senso corrente del termine. È Empedocle ad aver per primo individuato questa causa, da lui collocata nelle forze di Amore e Odio.

4.La causa finale o fine è ciò verso cui tende la cosa causata. Di questa causa ha parlato soprattutto Anassagora, con la sua teoria del Nous, che organizza tutta la realtà dei semi in modo ordinato e finalizzato.
Materia e forma sono principi intrinseci alla cosa, al punto che non si possono scindere. Causa efficiente e finale sono invece estrinseci alla cosa causata, la prima precedendola, la seconda seguendola.


Ontologia


 Aristotele afferma che vi è una scienza che studia l'essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale. La metafisica è infatti, nel suo secondo senso, scienza dell'essere in quanto essere.

L'analogia= uni-molteplicità dell'essere
L'essere, ciò che è in ogni cosa, è al contempo uno (identico nelle diverse cose) e molteplice (poiché le cose sono comunque molte), ossia è analogo. Aristotele afferma quindi la analogia dell'essere.
In altre parole l'essere non è né univoco, né equivoco: univoco è un termine detto nello stesso identico senso di due cose diverse (ad esempio “cavallo” detto di due cavalli), equivoco è un termine detto di due cose diverse con senso (totalmente) diverso, come “polo” detto di una maglia, detto di un polo terrestre e del gioco del polo; un termine è invece predicato analogicamente quando viene detto di cose diverse con un senso parzialmente identico e parzialmente diverso, come “viola” detto del colore viola e detto della viola piantina, o “rosa” detto del colore o detto della pianta, o, per fare l'esempio di Aristotele, “sano” detto di una persona, o del suo colorito, o del cibo (o del clima) più adatto a garantire la salute.
Tra i vari enti esiste, in questo senso, una analogia: si dice analogicamente, cioè né equivocamente né univocamente, che “è” una cosa e, ad esempio, un suo colore, un suo effetto operativo, un ricordo di essa, un sentimento da lei suscitato.
Così Aristotele supera definitivamente Parmenide, che concepiva l'essere come univoco, completando Platone, che aveva cercato di staccarsi dall'Eleate, soprattutto nel Parmenide e del Sofista, ma, secondo lo Stagirita, senza riuscirvi pienamente. In effetti Platone, secondo Aristotele, concepiva ancora l'essere come un genere, sia pure un genere trascendente, ossia come un universale sostanziale.

L'unità dell'essere
In quanto uno, l'essere ha delle leggi, dei principi a cui obbedisce: il principio di identità, di non-contraddizione e del "terzo escluso", per cui è impossibile che la stessa cosa sia e non sia.
Come si dimostrano tali principi supremi? Non possono essere dimostrati positivamente. È da pazzi dice infatti Aristotele, chiedere la dimostrazione di tutto: alcune cose sono autodimostrantesi: sono evidenti. Se si pretendesse di dimostrare tutto si cadrebbe in un circolo vizioso: si dimostrerebbe A con B, B con C e così via, fino a Z, che sarebbe dimostrata con A. Il che sospenderebbe il tutto a una ultima non dimostrazione. Da un lato quindi i principi supremi sono immediatamente evidenti.
Tuttavia una qualche forma di dimostrazione esiste: per assurdo. Mostrando che chi volesse negarli non potrebbe essere coerente.

Molteplicità dell'essere

Si danno quattro significati fondamentali dell'essere:
  1. L'essere come vero
  2. L'essere come accidente 
  3. L'essere come potenza e atto
  4. L'essere come categoria
1. Essere secondo il vero e il falso: è l'essere in quanto pensato: solo questo essere può essere falso; infatti la falsità è solo nel giudizio del soggetto che non si "adegua" all'oggettività del reale. Non esistono "cose false", ma pensieri falsi. Il che significa che l'essere in senso vero e proprio coincide col vero. Il che è molto prossimo al dire che la realtà non inganna, ma è il soggetto umano a porre diaframmi alla verità, a cercare di alterare ciò che di per sè sarebbe retto e limpido.

2. Essere accidentale: è l'essere che di fatto si trova ad accadere, ma potrebbe anche non accadere; è senza essere radicato nelle profondità necessarie delle strutture intelligibili che costituiscono l'intelaiatura del reale. Di fatto è accidentale ogni realtà particolare e ogni evento concreto. Necessarie sono solo le struttura intelligibili, le nature specifiche e le leggi universali. Questo significa che per Aristotele io che scrivo e tu che leggi esistiamo per un caso, e per caso ci è accaduto nella vita quello che ci è accaduto: il particolare in quanto tale non ha senso, è assurdo. Sensato è unicamente l'universale. Ma in questo modo, per Aristotele, la vita concreta non è salvata.

3. Essere secondo potenza e atto. Con questi concetti Aristotele imposta la sua soluzione al problema della contraddittorietà del divenire, quale la aveva prospettata Parmenide. Per il quale il divenire è l'essere del non essere e il non essere dell'essere. Invece il passaggio è non dal non-essere (assoluto) ma da quel non-essere relativo che è l'essere potenziale all'essere attuale. Il che non implica contraddizione. Essere potenziale è ad esempio il seme rispetto alla pianta che se ne svilupperà: il seme è in atto seme, e in potenza pianta.
L'essere attuale è determinato, è sempre qualcosa di preciso, mentre l'essere potenziale, la potenza, è a) indeterminato, non però b) totalmente indeterminato: un seme a) può diventare una pianta più alta o più bassa, con tanti rami o con pochi rami, b) ma non può un seme di pesco svilupparsi in una pianta di ulivo, ad esempio. Il che, in altri termini, significa che l'essere potenziale non è il nulla, ma è qualcosa, seppure qualcosa di (relativamente) indeterminato.
In quanto indeterminato l'essere potenziale è più imperfetto di quello attuale, è imperfetto. E infatti si passa dalla potenza all'atto solo grazie all'essere attuale: il legno è potenzialmente brace incandescente, ma lo può diventare in atto solo grazie a qualcosa che bruci già in atto. 
In qualche modo la potenza sta all'atto, nella sostanza corporea, come la materia sta alla forma: la materia è il fattore potenziale, la forma il fattore attualizzante e attuale.

4. Essere secondo le categorie. Ossia sostanza, qualità, quantità, luogo, tempo, relazione, agire, patire. Una distinzione essenziale va fatta tra la categoria di sostanza, che è la principale, e quelle degli "accidenti".
Solo la sostanza "sussiste", mentre gli accidenti "ineriscono" alla sostanza, come sue determinazioni. Non esiste il verde in sè, ma il verde di una data sostanza (ad esempio di una pianta), mentre la pianta esiste in sè stessa, non "appoggiandosi" ad altro, non inerendo.
Inoltre la sostanza resta, anche se i suoi accidenti cambiano: una persona è la stessa sostanza quando è lattante, quando è adolescente e quando è adulto, anche se cambiano gli accidenti quantità (altezza, peso), qualità (acquisisce nuove conoscenze, cambia stati d'animo), relazione (diventa ad esempio marito, padre, e datore di lavoro, amico di Tizio e di Caio) e altri.
Da non confondere il concetto di accidente e quello di essere accidentale: è accidentale che una sostanza abbia questi accidenti, ma è necessario che abbia degli accidenti; viceversa le sostanze seconde, in pratica le specie, sono necessarie, ma le sostanze prime, individuali, sono accidentali, appartengono all'essere accidentale.

USIOLOGIA


Nell'essere, tra i vari tipi di essere un posto centrale lo occupa la sostanza.
Sostanza è un essere che non inerisce ad altro, ma è sostrato di inerenza di altro (cioè degli accidenti). Le caratteristiche della sostanza sono le seguenti:

a.unità: la sostanza deve essere un che di uno: un sasso è una sostanza, un mucchio di sassi no;

b.determinatezza: deve essere un tode tì, deve potersi indicare concretamente: l'umanità non è sostanza (se non in senso secondario: sostanza seconda), lo è l'uomo, quest'uomo qui (questo è sostanza prima, sostanza in senso vero e proprio);

c.indipendenza: appunto in quanto la sostanza sussiste, e non inerisce: un maglione è sostanza, il blu no, perché è sempre blu di qualcosa, di qualche sostanza, ad esempio blu del maglione;

d.attualità: deve essere qualcosa di attuale, di reale: il seme che è seme ora, è sostanza, la pianta che il seme puòdiventare, sviluppandosi, non è sostanza, finché il seme resta seme.

In base a tali presupposti può essere detto sostanza:
  • non la materia: che non è attuale, né determinata, né indipendente, né davvero una nemmeno, sotto ogni aspetto.

  • la pura formache nelle sostanze corporee non è indipendente, pur essendo determinata, una e attuale.

  •  il sinolo di forma e materia (unione di forma e materia) : questa è la vera sostanza che costituisce il mondo fisico, da noi immediatamente conosciuto.


Teologia


Tra le varie sostanze centrale è la sostanza prima, il Motore Immobile, che, pur invisibile e spirituale, può essere affermato a partire dal divenire che constatiamo nel mondo fisico.

La teoria del movimento
Infatti il movimento del mondo è eterno, eterno essendo il tempo (è infatti impensabile che non ci sia un “prima” di ogni ipotetico inizio, e un “dopo” di ogni ipotetica fine); ora il movimento, eterno, deve avere una causa eterna, perchè affinché qualcosa divenga occorre qualcosa che faccia divenire, faccia passare dalla potenza all'atto; questa causa deve essere qualcosa che già sia in atto, di più, che sia atto puro.
Infatti non si può risalire all'infinito nella catena di cause del divenire, altrimenti non si spiegherebbe niente: occorre fermarsi, fermarsi a una Prima Causa Incausata, a un un Primo Motore  Immobile.

La essenza
Il Motore Immobile, per muovere tutto deve essere atto puro, ma poiché atto equivale a forma, Egli è forma pura, e poiché la forma è perfezione, Egli è pura, suprema perfezione, quindi è (anche e soprattutto) Intelligenza; in tal senso, ancora, Egli deve essere eternamente felice: come può esserlo? Solo avendo come oggetto della sua conoscenza quanto di più perfetto esista, cioè Sé stesso. Dunque il Motore Immobile contempla eternamente sè stesso, e non può conoscere altro fuori che sè, per non contaminarsi con qualcosa di imperfetto, che infrangerebbe la sua felicità. Perciò Egli non è creatore del mondo, né provvidenza: è il mondo che “va” verso di Lui, come verso il suo Fine.

La fisica aristotelica 

L'oggetto della fisica aristotelica è più ristretto di quello della metafisica: questa abbracciava l'intera estensione dell'essere, l'essere in quanto essere, la fisica invece solo una certa porzione di essere, quello in movimento, in pratica il mondo sensibile.

Il movimento è la caratteristica essenziale del mondo sensibile, fatto di sostanze composte di materia e di forma, perciò (in quanto la materia è fattore di potenzialità, e dunque di instabilità ontologica) divenienti.
Il movimento, o divenire, implica sempre
  • qualcosa che cambia,
  • qualcosa che resta e
  • qualcosa che fa cambiare

e può essere di quattro diversi tipi:
  • locale (cioè spaziale: lo spostamento da un punto all'altro dello spazio, da un luogo all'altro)
  • qualitativo (ossia la alterazione, il mutare qualità)
  • quantitativo (la diminuzione o l'aumento di aspetti quantitativi)
  • sostanziale (ossia la nascita e la morte di una sostanza)

Nei primi tre tipi di movimento ciò che resta è la stessa sostanza, mentre a cambiare sono rispettivamente l'accidente luogo, o l'accidente qualità, o l'accidente quantità; nel caso del divenire sostanziale ciò che cambia è la forma sostanziale: una scompare e un'altra le subentra, mentre ciò che resta è la materia, sostrato indeterminato e potenziale, recettivo delle diverse forme.
In tutti e quattro i casi perché ci sia movimento occorre qualcosa che faccia cambiare, ossia una causa efficiente.
Le sostanze corporee sono collocate in uno spazio, e divengono nel tempo.


L'ETICA DI ARISTOTELE

L’etica di Aristotele è un’etica eudaimonistica (che mira alla felicità). Va però fatta una distinzione tra etica EUDAIMONISTICA ed EDONISTICA (che mira al piacere): Aristotele tende a descrivere come l’uomo si comporta e non come dovrebbe comportarsi. Dice che l’uomo mira alla felicità; l’etica edonistica è una variante dell’etica eudaimonistica. L’etica epicurea sarà edonistica: l’uomo cerca il piacere. Aristotele non nega che il piacere abbia la sua importanza; ma la felicità non è il piacere, è qualcosa di più ampio che contiene anche il piacere. L’etica di Aristotele è eudaimonistica ma non edonistica. Il ragionamento di Aristotele è questo: deve arrivare a capire quale è il fine ultimo dell’uomo. Quindi dice che bisogna distinguere i fini in sè ed i fini che mirano a realizzarne altri.  La felicità è il fine ultimo dell’uomo. Il piacere non è il fine ultimo, ma accompagna e perfeziona ogni attività e sarà tanto migliore quanto migliore è l’attività che esso accompagna. La felicità non viene mai concepita come far niente: è sempre legata all’attività, sia fisica sia intellettiva: la felicità è l’atto di un’azione ben riuscita. Il piacere si accompagna a queste situazioni.

La definizione del concetto di felicità relativo all’uomo singolo deve fondarsi sulla natura stessa dell’uomo. Ora, poiché l’uomo è un essere razionale, la felicità per lui non può prescindere dall’esercizio della sua facoltà essenziale, che è la ragione.

Quando la ragione è impegnata nell’attività di ricerca e di possesso della verità – che è la sua funzione primaria – essa, se correttamente usata, dà origine nell’uomo alle cosiddette virtù dianoetiche o intellettive o razionali:
  • l’arte (techne) è la capacità, accompagnata da ragione, di produrre un qualche oggetto;
  • la saggezza è la capacità congiunta a ragione di agire convenientemente nei confronti di ciò che è bene o è male per l’uomo;
  • l’intelligenza è la capacità di cogliere i primi princìpi di tutte le scienze;
  • la scienza è la capacità dimostrativa o apodittica;
  • la sapienza, per Aristotele la forma di conoscenza più alta, che consiste in quella forma di conoscenza che ha come scopo se stessa e non la produzione di oggetti né le azioni pratiche. Approda alla vita contemplativa o teoretica, una vita dedicata esclusivamente alla ricerca. Il filosofo ritiene tale vita superiore a tutte le altre mortali e simile alla vita divina. L’attività teoretica, sostiene infatti Aristotele, «è di per se stessa la più alta» e la filosofia «apporta piaceri meravigliosi per la loro purezza e solidità». 
Quando la ragione guida e contiene invece le facoltà appettitive, nascono le virtù etiche o moraliLe virtù etiche sono tante quanti sono i sentimenti o le pulsioni che la ragione deve governare e dirigere; esse sono il frutto non di un qualche insegnamento, ma dell’abitudine a comportarsi in maniera misurata e moderata e l’uomo diventa virtuoso scegliendo, con una sorta di intuizione etica soggettiva, il giusto mezzo fra gli estremi (per esempio il coraggio è il giusto mezzo fra la temerarietà e la viltà, la liberalità è il giusto mezzo fra l’avarizia e la prodigalità, ecc.).

La principale delle virtù etiche è la giustiziaLa giustizia legale – intesa come conformità alle leggi – rappresenta, secondo Aristotele, la virtù intera e perfetta, sia pure non in assoluto, ma solo ciò che riguarda i rapporti con gli altri. L’uomo che rispetta tutte le leggi è l’uomo interamente virtuoso.

Per Aristotele l’amicizia risulta indispensabile alla vita. Secondo Aristotele l’amicizia, ossia come comprendente tutti i sentimenti di affetto e di attaccamento verso gli altri, può essere fondata sull’utile, sul piacere o sul bene. Di queste tre specie di amicizia, Aristotele privilegia la terza, poiché in essa soltanto l’amico è amato per se stesso, e non per qualche contingente motivo di utilità o piacere. L’amicizia di questo tipo è rara, perché rari sono i buoni.


LA POLITICA DI ARISTOTELE

L'uomo è per natura socievole, è un animale politico; la società non è dunque frutto di una scelta arbitraria, non è una convenzione, di cui l'uomo potrebbe anche fare a meno; un segno di questa naturale socievolezza umana è la parola, che rende l'uomo atto a dialogare e discutere. L'uomo dunque realizza la sua natura non in uno stato “selvaggio” di isolamento, ma nella civiltà, in società. 

Il giusto mezzo

La forma migliore di società è quella basata sul "giusto mezzo": una "polis" non troppo grande né troppo piccola, non governata né da una troppo ristretta oligarchia né dalla massa del popolo, incline a farsi condizionare dalle emozioni, bensì dalla classe media; in questo lo Stagirita si discosta dall'utopismo del maestro, del resto superato dallo stesso ultimo Platone: è inutile inseguire una perfezione assoluta in politica, è meglio puntare su ciò che è relativamente meglio, ovvero la monarchia, da preferire alla tirannide, l'aristocrazia, da preferirsi all'oligarchia, e la politeia da preferirsi alla demagogia. Aristotele non dice quale sia in assoluto la migliore forma di regime, tuttavia propende a pensare che per popoli non ancora molto sviluppati, barbari, sia una buona costituzione la monarchia, mentre se un popolo è maturo, come lo è quello greco, la forma migliore è la politeia. Quest'ultima è la forma di regime più stabile, meno soggetta a rivoluzioni.

Ineguaglianze

Esistono differenze qualitative tra gli esseri umani: i liberi sono superiori agli schiavi, i greci ai barbari, gli uomini alle donne e ai figli (Politica, I, 13).
In particolare egli sostiene che i greci siano il giusto mezzo tra la laboriosità rozza dei nordici e la raffinatezza rammollita degli orientali: i greci sono al tempo stesso laboriosi (come nordici) e civilizzati (come orientali). È questa la parte più caduca della filosofia di Aristotele, quella che più esprime la sua appartenenza alla contingente situazione storica della civiltà greca, ma si potrebbe dire delle civiltà non-cristiane: solo la fede cristiana in effetti afferma senza ambiguità la reale e profonda eguaglianza di tutti gli esseri umani. Con buona pace di quanti hanno visto nell'antichità classica un luminoso regno di saggezza, oscurato poi dal Cristianesimo, la verità è che l'età antica pensa in termini di diseguaglianza e di discriminazione.


LA LOGICA

Aristotele tratta di ciò con cui conosciamo ciò che esiste, lo strumento, con cui conosciamo, cioè il pensiero, in greco logos: di qui i nomi di Organon, che designa l'insieme delle opere aristoteliche di logica, e appunto la logica è la scienza del logos, del discorso, del pensiero. Aristotele chiamava analitica la sua logica. Il pensiero ha diversi livelli: il livello più semplice, più elementare, è quello del concetto (ad esempio il concetto di mela, quello di rosso); viene poi il livello, più complesso, del giudizio, che unisce più concetti (ad esempio questa mela è rossa); e infine viene il livello di massima complessità, che è il ragionamento, che unisce più giudizi (le mele rosse sono mature, questa mela è rossa, quindi è matura). 

Essi possono avere un diverso grado di comprensione (cioè di densità contenutistica, di specificità) e di estensione (cioè di universalità, di generalità). Ad esempio il concetto di insetto è più esteso di quello di formica, quello di invertebrato più di quello di insetto, quello di animale più di quello di invertebrato.
Tra estensione e comprensione esiste un rapporto, per così dire, di proporzionalità inversa: quanto più un concetto è esteso, tanto meno sarà comprensivo, tanto meno avrà contenuti specifici.
I concetti più estesi di tutti, che conservino un carattere di univocità, sono le  categorie, già viste in metafisica: sostanza, qualità, quantità, relazione ecc.; al di sopra delle categorie c'è un altro concetto, più esteso di esse, perché tutte le ricomprende, perdendo però il carattere di univocità: si tratta del concetto, analogico, dell'essere.


LA POETICA 

La storia ha come oggetto un particolare vero, la filosofia l'universale, mentre la poesia ha come oggetto un particolare universalizzabile verosimile.
Per la storia è essenziale che il particolare narrato sia vero, devono essere dei fatti (particolari) reali, realmente accaduti. La poesia (e quindi l'arte in genere) invece non si preoccupa della verità di ciò che narra, ma solo della sua verosimiglianza, cioè non le importa che ciò che è narrato sia accaduto, ma che possa accadere. Una vicenda che può accadere è un particolare che potrebbe presentarsi in modo simile in molti casi (reali, veri). Ossia è un particolare universalizzabile. In questo consiste la medietà della poesia tra storia e filosofia.
Dire che una vicenda è universalizzabile significa dire che essa può riguardare tuttiLa catarsi è qualcosa di fisico-emozionale (può provocare ad esempio pianto, o riso, o altri fenomeni fisiologici come, per esempio un aumento del battito cardiaco, o il sudare), ma non si riduce ad esso: anzi, se si verifica un aspetto fisiologico-emozionale è perché, prima, deve essere accaduto qualcosa di conoscitivo, di noetico: cioè devo aver giudicato che quella vicenda ci riguarda, che ciò che accade all'eroe tragico, o ad altri protagonisti, potrebbe accadere anche a noi.
Ciò ci purifica perché aiuta a vedere ad esempio nella sofferenza non qualcosa di particolarmente sfortunato che accade solo a noi, ma un comune retaggio del genere umano.




19/03/18

PLATONE

Il pensiero di Platone si sviluppò in mezzo a una crisi politico-culturale: 404AC(sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso, I trenta tiranni); 399AC (uccisione di Socrate).
Essendo un aristocratico, Platone avvertì molto bene la crisi; ma essendo filosofo la vive come crisi dell'uomo nella sua totalità,prendendo Socrate come punto di riferimento,poiché per uccidere l'uomo più saggio di tutti la società doveva essere arrivata al limite.
Secondo Platone il principio di quella crisi deriva dall'intelletto,e si convince che era necessaria una riforma globale dell'esistenza umana,con una nuova filosofia. Infatti dice che se si vuole migliorare qualcosa nello stato, si deve praticare una politica filosofica.
Platone nacque ad Atene da una famiglia aristocratica nel 428AC.All'età di 20 anni divenne discepolo di Socrate e lo seguì fino alla sua morte, che è decisiva per la vita filosofica di Platone.(nella lettera VII infatti dice che si sarebbe dedicato alla vita politica, a causa dell'ingiusta morte di Socrate, per cercare di cambiare qualcosa nello stato;la sua idea era che a guidare lo stato dovevano essere i filosofi.
Una delle caratteristiche dell'opera platonica è l'uso dei miti(racconti fantastici attraverso cui vengono espresse le dottrine filosofiche. Il mito in Platone ha 2 significati:1)strumento per comunicare in modo semplice le dottrine 2)E' un mezzo di cui si serve il filosofo per parlare di realtà che vanno oltre ai limiti I primi periodi dell'attività di Platone sono dedicati alla difesa di Socrate e alla polemica contro i sofisti. Platone si inspira molto alle tecniche di Socrate, in particolare alle definizioni. Nell'Atene del V sec Platone formula la teoria delle idee ;questa teoria è fondamentale per capire il pensiero di Platone. Platone ritiene che la scienze sia stabile e immutabile,quindi perfetta;ma è anche convinto che la mente sia la riproduzione di ciò che esiste"realismo gnoseologico";Platone si chiede quale sia l'oggetto della scienza,ovvero l'oggetto del concetto. Questo oggetto è l'idea, identità immutabile e perfetta,che esiste per suo conto,e che costituisce con tutte le altre idee un altro mondo, l'peruranio(al di là del cielo). Le cose sono imitazioni imperfette delle idee(esempio del santo). L'dea platonica è il modello unico e perfetto delle cose molteplici e imperfette di questo mondo.




IL MONDO INTELLEGIBILE 


Sua essenza


La
 via ontologica argomenta che se non si ammettesse una realtà ideale non si spiegherebbe il movente adeguato della realtà umana (meccanicisticamente inspiegabile);(si veda in particolare il Fedone, ed alcuni brani di Platone: il fisico non basta a spiegare il fisico, occorre una seconda navigazioneIl mondo delle Idee o intelligibile deve esistere per due ragioni fondamentali, una gnoseologica e una ontologica. La via gnoseologica al mondo intelligibile argomenta che altrimenti non si spiegherebbe perché noi pensiamo in base a delle categorie di perfezione e di stabilità, non si spiegherebbe insomma perché abbiamo in noi una conoscenza, un sapere immutabile e perfetto (quale la matematica o la filosofia); quale origine infatti può avere un effetto perfetto? Solo un'origine, una causa perfetta; un sapere immutabile non può dunque avere origine dal mondo mutevole del sensibile, ma solo da un mondo immutabile, quale è appunto il mondo intelligibile.


IL MONDO SENSIBILE 

Il mondo sensibile non è stato creato (dal nulla), ma plasmato da una materia preesistente, la chora. Il mondo corporeo non è stato creato: perché il divino per Platone non è Infinito, non è Onnipotente, ma ha una perfezione limitata, finita. Divine sono le Idee, ma sono impersonali, intelligibili, ma non intelligenti (per Platone l'intelligibile è superiore all'intelligenza, perché la regola e la misura e non ne dipende), non sono dei "TU", centri di consapevolezza e di libertà (il Bene è theion, non theos), e inoltre non possono generare che Idee (secondo una tesi comune al pensiero greco, per cui il supremo non può "abbassarsi" verso l'inferiore); e divino è il personaggio del Demiurgo, meno perfetto delle Idee, ma essere personale, buono e perfetto (finitamente).
Il Demiurgo trova la materia già esistente, come qualcosa di indeterminato, inintelligibile, oscuro, informe, caotico, retto da cieca necessità, quale spazialità "ricettacolo di tutto ciò che si genera, quasi una nutrice". Tale materia, più consistente in un certo senso di quella aristotelica, che è puro principio, non è il non essere, ha una sua realtà. Tale chora è fattore di relatività, di instabilità, di fenomenicità.
Il Demiurgo non può azzerarne tali caratteristiche negative, che non lui ha creato; cerca però di attutirne al massimo la negatività, infondendo in essa una somiglianza e una partecipazione delle Idee. Da tale opera di plasmazione esce, dal caos che precedeva, un cosmos, quanto più possibile armonico e ordinato.
Il male che ancora sussiste nel cosmo, consistente essenzialmente in un disordine, in una irrazionale disarmonia, non è dovuto all'azione plasmatrice del divino, ma alla resistenza opposta dalla materia caotica, che non ha potuto essere totalmente piegata e vinta.

l'anima del mondo e il tempo


Platone paragona il mondo sensibile a un vivente perfetto, anzi a una sorta di "dio visibile", in quanto plasmato dal Demiurgo; di questo dio visibile il corpo è il mondo, e l'anima è estesa a tutto il mondo, permeandolo e contenendolo, secondo proporzioni e intervalli numerici di una scala musicale. Oltre al dio visibile dell'ambiente terrestre, il Demiurgo ha plasmato anche altri dèi visibili:
  • gli astri, di puro fuoco,
  • gli dèi della tradizione, a cui ha affidato di completare la generazione della realtà visibile, plasmando ciò che perisce (e che Egli non può forgiare) e affidando loro, da infondere nei corpi mortali ...
  • le anima umane incorruttibili.

Il tempo: è immagine mobile dell'Eterno, ed è nato con il cielo.
Il cosmo ha avuto un inizio (con l'opera del Demiurgo), ma non ha termine, è incorruttibile.


la conoscenza come reminiscenza


L'anima preesiste al corpo, e non è distrutta alla morte del corpo; in essa alberga una memoria (reminiscenza o anamnesi) delle idee (viste nei periodi di distacco dal corpo e di contemplazione del mondo intelligibile), e un desiderio (ἕρως) di esse, memoria e desiderio accesi dalle cose, che, come abbiamo visto, delle idee sono imitazione (μίμησις) e partecipazione.

Che cosa non è conoscenza vera

Soprattutto nel Teeteto Platone sviluppa la sua gnoseologia "negativa", chiarendo che cosa non sia vera conoscenza:
  • essa non è percezione sensibile: questa infatti è proporzionata al suo oggetto, che è continuamente mutevole e relativa al soggetto individuale (ciò che io vedo, nella misura in cui è un dato sensibile, lo vedo solo io); la sensazione è perciò mutevole e relativa (mentre la vera conoscenza deve essere assoluta e immutabile).
    Inoltre se la sensazione fosse vera conoscenza si andrebbe incontro alle seguenti obiezioni:
    • nessuno potrebbe essere più saggio di un altro (perché ognuno sarebbe misura della sua saggezza); mentre l'esperienza ci dice il contrario;
    • i ricordi non sarebbero conoscenza (non essendo qualcosa di visto), mentre tutti concordano che lo siano;


La verità è che vi sono verità non date dalla sensazione (come quelle matematiche).


  • essa non è nemmeno semplicemente "giudizio vero", che può esserci anche senza giudizio delle cose (ad esempio un tribunale può giudicare innocente uno che lo è davvero, ma per vie puramente casuali-esteriori, non conoscitive: come per la abilità del suo avvocato, quando invece tutti gli indizi fossero contro di lui); in questo caso si ha solo una opinione vera.
  • essa non è neppure "giudizio vero accompagnato da ragione", se per ragione si intenda o una spiegazione parziale, o una pura enumerazione di fattori, senza coglierne l'unità e la radice comune, o infine la enucleazione delle note distintive individuali (rimanendo sempre a un livello esteriore-superficiale).

La conoscenza vera deve essere immutabile e assoluta, e deve cogliere un dato universale e definibile in modo chiaro e stabile.


che cosa è conoscenza vera


Soprattutto nella Repubblica Platone chiarisce questo tema. Ciò che è massimamente conoscibile (dunque oggetto di vera conoscenza) è ciò che massimamente è: vi è corrispondenza tra essere e conoscere, tra ontologia e gnoseologia.
L'essere sensibile, intermedio tra il nulla e il vero essere è perciò oggetto di una conoscenza imperfetta, a metà tra la scienza e l'ignoranza, ossia la doxa. Solo dell'essere intelligibile si da vera scienza (episteme).






ARISTOTELE

LA BIOGRAFIA Aristotele nacque verso il 384 a.C., a Stagira, città della penisola calcidica, nella Grecia settentrionale (vicina al...